ARCHIVIO ASTRONEWS: giugno 2010

 

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29 GIUGNO 2010:
La sonda dell'ESA "Rosetta" sulla rotta dell'asteroide Lutetia

L’appuntamento alla cieca – i due ancora non si conoscono - è per la notte di sabato 10 luglio. Sarà il primo incontro tra una sonda e un asteroide metallico di tipo M, per cui non mancheranno certo le domande e, si spera, le risposte. Da una parte Rosetta, la sonda ESA costruita con un importante contributo italiano e partita nel 2004 per un viaggio decennale verso la cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko, dall’altra Lutetia, il piccolo asteroide della fascia principale scoperto nel lontano 1852 all’Osservatorio di Parigi (per questo fu battezzato con l’antico nome romano della capitale francese). I due avevano fissato la data circa un mese fa, quando sono cominciate le manovre di avvicinamento verso questo flyby che si annuncia tra i più interessanti della missione.
Rosetta dovrebbe sorvolare Lutetia a circa 3200 km di distanza, mantenendosi così vicina per circa un paio d’ore. Sufficienti a mandare subito a Terra ogni foto possibile di questo asteroide così poco conosciuto (le immagini dovrebbero essere messe a disposizione dall’ESA già nel pomeriggio successivo).

Al momento, nessuno sa esattamente a cosa Lutetia assomigli. Ai telescopi di terra appare come un singolo punto luminoso, uno dei tanti tra Marte e Giove. Ma le continue variazioni nell’intensità luminosa suggeriscono che Lutetia ruoti su se stesso ed abbia una forma irregolare. Gli astronomi sono riusciti a stabilire che taglia abbia, ma non molto di più. Il diametro, nel punto di maggiore ampiezza, dovrebbe aggirarsi sui 134 km. Diverse misurazioni hanno fatto concludere che Lutetia dovrebbe con ogni probabilità essere un asteroide metallico di tipo M. Un’ipotesi che, se dovesse – come si prevede – essere confermata, potrebbe imporre un ripensamento nel modo tradizionale di classificare gli asteroidi.

 

 
25 GIUGNO 2010:
Ricostruito l'antichissimo oceano esistito su Marte

Il planisfero qui riprodotto è il risultato della più accurata ricerca finora condotta con l'obiettivo di delineare le caratteristiche fisiche e morfologiche di quello che fu il grande oceano di Marte. Autori dell'impresa sono Gaetano Di Achille e Brian Hynek, appartenenti al Geological Sciences Department della Colorado University di Boulder.
Come si evince dai risultati pubblicati su Nature Geoscience, i due ricercatori hanno esaminato una gran quantità di immagini e dati ottenuti con i vari orbiter impegnati nella mappatura della superficie marziana, individuando ben 52 ampi depositi di materiale fluviale, ciascuno dei quali era un tempo alimentato da numerosi fiumi.
Tali depositi, denominati delta, hanno la particolarità di trovarsi tutti alla medesima elevazione e distribuiti lungo il perimetro di un'enorme depressione, che rappresenta circa un terzo dell'intera superficie marziana. Ben 29 dei 52 delta sono risultati connessi fra loro o in qualche modo associati a falde sotterranee o laghi, il che indica una certa dinamicità delle acque e quindi la presenza di un ciclo idrologico, per il mantenimento del quale sono indispensabili un oceano e abbondanti piogge.
Secondo Di Achille e Hynek, circa 3,5 miliardi di anni fa quell'oceano copriva il 36% della superficie di Marte e conteneva 124 milioni di km3 di acqua, ovvero 1/10 del volume degli oceani terrestri, ma pur sempre sufficiente a coprire l'intero pianeta rosso con 550 metri di acqua, se ipotizziamo di distribuirla uniformemente su tutto il globo.
Lo stesso Hynek, questa volta in collaborazione con Michael Beach e Monica Hoke (sempre della CU-Boulder), in un lavoro parallelo pubblicato sul Journal of Geophysical Research, ha individuato nelle immagini della superficie di Marte la presenza di ben 40mila valli e vallette di origine fluviale, il quadruplo di quelle finora contate. Ciò rafforza ulteriormente l'ipotesi di significative precipitazioni, con conseguente trasporto di materiale verso i delta disposti sulle rive dell'oceano.
Poiché, come accade sulla Terra, nei depositi di origine alluvionale è incluso tutto ciò che finisce nei fiumi, quindi anche forme di vita, appare altissima la probabilità di trovarne traccia su Marte proprio in corrispondenza dei delta, opportunità di cui si terrà ovviamente conto nel pianificare le nuove missioni automatiche al suolo.

 

 
21 GIUGNO 2010:
Alle 11:28 siamo entrati nel Solstizio d'Estate

Oggi è il solstizio d'Estate: il Sole raggiungerà la massima altezza sull'eclittica
Il solstizio d’estate cade esattamente alle ore 11:28. Nel giorno più lungo dell’anno il sole sorge alle 5.35 e tramonta alle 20.49. Il giorno dura 15 ore e 14 minuti. Alle ore 13.00 dell’ora legale attualmente in vigore il Sole raggiunge il punto di massima elevazione sull’
orizzonte. L’altezza raggiunta dalla nostra stella dipende dalla latitudine del luogo di osservazione.
Nel suo passaggio al meridiano, il Sole (che si trova nella costellazione dei Gemelli ai confini delle costellazioni del Toro e di Orione, raggiunge la massima altezza rispetto all'orizzonte: la latitudine del luogo più l’inclinazione dell’asse della Terra rispetto al piano della sua orbita (circa 23°27'). In pratica alle nostre latitudini (circa 44°10'), il Sole si verrà a trovare, al passaggio del meridiano, a 44°10'+23°27'=67°37' sopra l'orizzonte. Al Tropico del Cancro invece il Sole sarà allo zenit (90° sopra l'orizzonte).

Il percorso del Sole in cielo sarà il più lungo di tutto l'anno: oggi, In Italia avrà un’altezza di circa 68° a Milano, 71° a Roma, 73° a Lecce e 75° a Palermo

La parola solstizio viene dal latino Solis statio, ovvero Sole fermo. In effetti per alcuni giorni prima e dopo la data del solstizio l'altezza del Sole sopra l'orizzonte varia così poco da dare l’impressione che il suo moto (in realtà il moto della Terra intorno al Sole) si sia fermato. Il Sole, che rappresenta il fuoco, è al centro di tutte le religioni delle antiche civiltà e rappresenta le divinità positive contrapposte a quelle malvagie e tenebrose. Nell'antichità, quindi, astronomi e sacerdoti, altari religiosi e rudimentali osservatori astronomici, si identificavano.

 

 
17 GIUGNO 2010:
Sulla Luna un oceano con 1 metro di acqua!

Incredibile ma vero: da uno studio condotto al Carnegie Institution's Geophysical Laboratory da un team di ricercatori guidati da Francis McCubbin, i cui risultati sono stati pubblicati su Proceedings of the National Academy of Sciences di questa settimana, è emerso che la Luna contiene abbastanza acqua da ricoprirla interamente con un oceano profondo 1 metro! Tramonta definitivamente il mito della totale aridità del nostro satellite.
McCubbin e colleghi hanno applicato nuove tecniche spettrometriche nell'analisi di reperti lunari con il microscopio elettronico. In particolare, hanno esaminato un paio di campioni rocciosi prelevati durante le missioni Apollo e un meteorite trovato in una regione desertica dell'Africa e del quale è assodata l'origine lunare.
Sfruttando una tecnica di analisi detta SIMS (da Secondary Ion Mass Spectrometry), che consente di determinare la composizione chimica del materiale analizzato, inclusi gli elementi presenti in tracce infinitesime, i ricercatori hanno diretto fasci di ioni sui reperti lunari, provocando per reazione l'emissione di ioni da parte degli elementi costituenti i reperti stessi.
Dalle caratteristiche chimico-fisiche dei fasci in uscita è stato possibile individuare la presenza dell'acqua nella forma di ioni di ossidrile, presto messi in relazione con la presenza nei campioni analizzati di un minerale chiamato apatite, noto per legarsi proprio agli atomi di idrogeno e ossigeno.
Secondo McCubbin, nella lunga fase in cui la Luna passò lentamente da un globo di magma a un corpo solido, la formazione di una rilevante quantità di cristalli di apatite avrebbe offerto un efficace rifugio alle molecole di acqua "scacciate" da altri elementi con i quali è insolubile, come ad esempio i silicati.
Sebbene la campionatura effettuata dal gruppo di McCubbin sia piuttosto limitata, i risultati delle analisi condotte parlano di un contenuto minimo di acqua per la Luna che va da 64 parti per miliardo a 5 parti per milione, e anche a voler essere pessimisti la quantità supera di due ordini di grandezza (ossia di almeno 100 volte) quella finora ritenuta plausibile.

 

 
14 GIUGNO 2010:
L'attesissimo rientro della sonda Hayabusa

Polvere di asteroide nel deserto australiano: la capsula che si trovava a bordo della sonda spaziale giapponese, Hayabusa, e che si spera contenga frammenti dell'asteroide Irokawa è stata recuperata nell'outback meridionale. Il contenitore ad alta resistenza ha le dimensioni di una palla da basket. Era caduto domenica nel deserto, dopo che la sonda che la trasportava si era disintegrata impattando con l'atmosfera. Il prezioso contenitore è stato immediatamente trasferito in elicottero al centro di controllo di Woomera. Gli scienziati sono in grande agitazione, in attesa di analizzare la polvere al suo interno: nel 2005 la sonda si è infatti posata su Itokawa, un corpo celeste che orbita attorno alla terra dove ha raccolto alcuni campioni. E' la prima volta nella storia che una sonda spaziale rientra dopo essere entrata in contatto con un asteroide.

Sette anni nello spazio
La missione giapponese ha viaggiato per sette anni nello spazio coprendo sei miliardi di chilometri. Secondo quanto riferito dalla Jaxa, l'agenzia spaziale spaziale nipponica, la sonda Hayabusa (il falco pellegrino), ha superato numerosi problemi tecnici, che sono stati all'origine del ritardo di tre anni sui tempi previsti per la missione. Domenica sera però, dopo sette anni nello spazio, la sonda è finalmente riuscita a tornare nelle immediate vicinanze della Terra. L'impatto con l'atmosfera terrestre ha disintegrato Hayabusa che ha però sganciato correttamente la preziosa capsula resistente al calore. Frenata da un sistema di paracaduti il contenitore spaziale è atterrato nella regione di Woomera, nell'Australia meridionale. La missione, oltre a raccogliere strada facendo importanti dati scientifici, era proprio quella di riportare indietro i primi campioni di superficie mai prelevati da un asteroide. Solo nelle prossime ore si conoscerà l'esito.

 

 
 11 GIUGNO 2010:
Prepariamoci ad osservare la cometa McNaught ad occhio nudo!

Si tratta della McNaught C/2009 R1, un bell'astro chiomato dalla testa compatta, da cui diparte una lunga e sottile coda di plasma.
La McNaught aveva iniziato a dimostrarsi interessante già verso metà maggio, quando, a dispetto delle previsioni, aveva magnitudine 8,5 anziché 10. Nel giro di tre settimane si è poi portata al limite di visibilità ad occhio nudo e in questi giorni è fra la 5a e la 6a.
La si rintraccia con facilità utilizzando un binocolo e puntandolo prima dell'alba verso l'orizzonte di nord-est a un'altezza di circa 15°, in direzione della costellazione del Perseo (apri la cartina).
Trattandosi di una cometa al suo primo passaggio nel sistema solare interno (si è avvicinata infatti seguendo un'orbita iperbolica), è praticamente impossibile prevedere ulteriori e improvvisi aumenti di luminosità ed è quindi un oggetto da seguire con particolare interesse. Il periodo migliore per farlo è proprio questo: giovedì 10 giugno a mattina è passata 1° a nord dell'ammasso M34, mentre il 13 giugno sarà 3° a sud di Mirfak (l'alfa del Perseo).
Considerando altezza sull'orizzonte, chiarore del cielo e presenza della Luna, le migliori condizioni di visibilità si avranno a metà giugno, dopodiché la McNaught continuerà ad abbassarsi di circa 1° al giorno, andando incontro al Sole e perdendosi nei suoi bagliori a fine mese, quando le previsioni più ottimistiche indicano una magnitudine massima pari a 2.
Raggiungerà il perielio il 2 luglio e la sua distanza dalla Terra non scenderà mai al di sotto di 1,135 unità astronomiche. Tutto sommato, ne vale la pena osservarla!

 

 
8 GIUGNO 2010:
E' partita la prima missione simulata verso Marte

E' iniziato il 3 giugno scorso un esperimento, il Mars500, che prevede la simulazione completa di una missione verso il pianeta rosso, le operazioni sulla superficie e il conseguente viaggio di ritorno.

In una struttura isolata ed autosufficiente, sei componenti dell'equipaggio ed una riserva si sono imbarcati oggi 3 giugno alle 0949 UTC e resteranno isolati dal resto del mondo per 520 giorni. Le comunicazioni avverranno solo attraverso le radio, esattamente come se fossero veramente in missione e di conseguenza con il ritardo crescente in base a quanto saranno distanti da Terra. A bordo avranno tutte le informazioni e potranno anche utilizzare internet, ma non in tempo reale, dato che il protocollo del web prevede lo scambio di informazioni. Potranno eseguire ricerche e potranno inviare e ricevere email e messaggi. Sempre via email invieranno a Terra i loro diari di bordo dove racconteranno le loro impressioni.

Questo esperimento è organizzato dall'ESA, l'agenzia spaziale europea e l'astronave si trova a Mosca, all'istituto IMBP (Institute of Medical and Biological Problems).
Lo scopo è quello di studiare il comportamento umano ed ottimizzare le risorse disponibili in uno spazio limitato come quello di un'astronave.
Ovviamente non potranno essere provati gli effetti della lunga esposizione ai raggi cosmici e gli effetti a lunghissimo termine dell'assenza di gravità. Sicuramente ci sarà anche una componente rassicurante rappresentata dal fatto di essere comunque sempre sulla Terra ed in caso di pericolo vero si potrà interrompere l'esperimento.

I componenti dell'equipaggio di Mars500 sono Diego Urbina e Romain Charles dall'Europa, Sukhrob Kamolov, Alexey Sitev, Alexandr Smoleevskiy dalla Russia e Wang Yue dalla Cina. La riserva è Mikhail Sinelnikov, un russo.

Diego Urbina è un Italiano 26enne di origini Colombiane. Torinese, è laureato in Ingegneria Elettronica al Politecnico di Torino e se volete sentire le sue risposte e le sue impressioni pochi giorni prima di entrare nel simulatore per questa missione, potete scaricarvi
la registrazione della scorsa puntata di AstronautiCAST dove lo abbiamo intervistato.

Il programma di volo prevede 250 giorni di andata, 30 giorni di esplorazione sul suolo marziano e 230 giorni di ritorno.

 


4 GIUGNO 2010:
 Ma la Terra assomigliava a Titano?

Uno studio condotto alla University of Colorado (presso il distaccamento di Boulder) dimostra che durante il periodo Archeano, fra 3,8 e 2,5 miliardi di anni fa, la primitiva atmosfera terrestre possedeva uno strato protettivo composto di sottoprodotti del metano e dell'azoto, in grado di schermare i raggi ultravioletti, mantenere un moderato effetto serra e favorire lo sviluppo delle prime forme di vita.
Autori dello studio, in uscita oggi su Science, sono Eric Wolf e Brian Toon, il primo dottorando e il secondo professore del dipartimento di scienze oceaniche e atmosferiche. I due hanno sviluppato parte di un precedente modello climatologico del National Center for Atmospheric Research, evidenziando come dalle reazioni fra luce solare, gas atmosferici e aerosol possa essersi formata una foschia simile a quella che circonda Titano, ma nel nostro caso ricca di ammoniaca, ideale per favorire un effetto serra che, stando ai calcoli, ha mantenuto a lungo la temperatura del pianeta a livelli paragonabili a quelli attuali, se non leggermente più elevati.
Finora si era ritenuto che l'atmosfera primitiva fosse composta prevalentemente di azoto con una piccola percentuale di anidride carbonica, ma Wolf e Tonn hanno calcolato che in quel caso l'effetto serra prodotto non sarebbe stato sufficiente a garantire temperature superficiali favorevoli allo sviluppo della vita, né a proteggerla dalle radiazioni ultraviolette. Inoltre, il Sole in quell'epoca era energeticamente più debole del 20-30% rispetto ad oggi, e la Terra avrebbe dovuto congelarsi.
E c'è di più: i vecchi modelli prevedevano per le particelle costituenti gli aerosol dell'atmosfera una forma sferica, mentre test di laboratorio condotti da Wolf e Toon indicano forme ben più irregolari e quindi proprietà ottiche diverse e un diverso livello di filtraggio della luce solare.
In breve, non esistendo durante l'Archeano lo strato di ozono, poiché l'ossigeno era allora presente in tracce, a proteggere il pianeta ci ha pensato un miscuglio di azoto e ammoniaca, ai quali si è presto aggiunto il metano iniettato nell'atmosfera dall'attività metabolica delle prime elementari forme di vita. Solo in ere successive, lo sviluppo di nuove e ben più complesse forme di vita ha favorito la produzione di ossigeno, procedendo alla graduale sostituzione dello scudo protettivo.
Se è dunque vero che per la nascita della vita servono ben precise condizioni ambientali, è anche vero che una volta nata è essa stessa a modificare l'ambiente.